domenica 6 novembre 2016

Costruire spazi di senso per la difesa e la promozione dei Diritti Umani

Questa riflessione prende vita qualche giorno dopo la morte dell’ex Presidente Azeglio Ciampi, e impiegare come titolo di questo articolo una sua frase, mi sembra un segno di gratitudine a un uomo che ha saputo camminare con autenticità in questa storia.

Per queste osservazioni che seguono prendo spunto dalla mia partecipazione, in qualità di facilitatrice, al Convegno internazionale sui Diritti Umani promosso dalla Famiglia Domenicana a Salamanca (Spagna), a settembre del 2016. È stato un onore e un grande apprendimento accompagnare nei quattro giorni dell’incontro i 200 partecipanti della Famiglia di San Domenico (suore, frati, laici e laiche, giovani), provenienti da 50 paesi diversi e con impegni molto differenti tra loro nella difesa e nella promozione dei Diritti Umani nel mondo. Lo chiamano “Processo Salamanca” (in memoria dell’impegno di Francisco de Vitoria e altri Domenicani come Montesinos e Las Casas) questo tentativo di far incontrare e lavorare insieme la dimensione intellettuale e di ricerca sui Diritti Umani e la dimensione più operativa, che mobilita risorse concretamente contro le numerose violazioni dei diritti, nei diversi luoghi del mondo. L’Ordine domenicano ha accettato la sfida di voler conciliare testa e mani, cielo e terra, mente e cuore: non è tempo per le frammentazioni, è necessario lavorare in networking per favorire un cambiamento significativo nella società e per creare quell’auspicata trasformazione verso un benessere sempre più inclusivo e allargato.


Chi parla più di Diritti umani oggi? E se lo si fa, con quale linguaggio e che narrazione si diffonde? Chi conosce le Istituzioni dove governi e società civile si incontrano per estenuanti negoziazioni in difesa dei diritti umani?[1] Cosa vogliamo dire con Diritti Umani?
Per rispondere in modo chiaro ma non esaustivo a quest’ultima domanda, non possiamo non fare riferimento alla Dichiarazione dei Diritti Umani approvata dalle Nazioni Unite nel 1948. Un tentativo encomiabile di dare un nome ai diversi aspetti in cui la dignità umana, di cui ogni essere umano è portatore per il solo fatto di esistere, può essere declinata e vissuta, tenendo conto delle diversità culturali, storiche e sociali di ogni realtà. La Dichiarazione del ’48 cerca di conciliare universalità e eccezionalità, globalità e localismo, individualità e socialità. Quel testo è un’opera d’arte non per la sua perfezione, ma perché ha saputo tradurre in parole i desideri che abitavano nel cuore dei popoli dopo due devastanti Guerre mondiali. È una lista di desideri e aspirazioni umane, come se avessero risposto alla domanda “Cosa sogniamo per il futuro del mondo? Cosa possiamo imparare dopo tanta violenza?”.

Parlare di Diritti Umani oggi sembra usare una lingua antica o fuori moda. Sono altre le parole che abitano la nostra società globale e, l’Italia e l’Europa, non fanno eccezione. Sembra prevalere un linguaggio declinato a partire dalla violenza, dall’aggressione, dalla divisione, dalla morte: sia nell’ambito di un’economia predatoria ed escludente, sia nell’ambito socio-politico di relazioni tra comunità locali e tra popoli.
Come ci poniamo noi, sognatori e sognatrici di un mondo dove “giustizia e pace si baceranno”, davanti a questa figura violenta che prevale nel mondo?[2] Siamo in grado di cogliere i sussurri di un bene che continua ad abitare gli interstizi della vita? O, pur inconsapevolmente, cadiamo in questo chiacchiericcio rumoroso e deprimente, nichilistico, dove “tanto non serve a nulla”, “niente mai cambierà”?

            E’ necessario educarci affettivamente e spiritualmente a cogliere il bello che cresce. Non basta apprendere nuovi comportamenti, abbiamo bisogno di costruire spazi di senso, di nutrire la sacralità del quotidiano, di generare una spiritualità olistica che sani le ferite e alimenti la riconciliazione, dentro e fuori di noi. Per essere promotori e promotrici dei Diritti umana, non basta una decisione razionale, è necessario lasciarci toccare nel profondo, nelle nostre viscere.

“I Vangeli sono molto parchi nell’espressione delle emozioni di Gesù. Per questo colpisce il fatto che nei sinottici gli assegnino per ben sette volte l’espressione ‘commuovere le viscere di Gesù’. Questa espressione è legata a situazioni nelle quali Egli interviene per curare, sanare, alleviare il dolore. (…) Non è il frutto di una riflessione ma di un cuore misericordioso.” [3]
Parliamo di viscere di misericordia. Donne e uomini siamo dotati di un grembo simbolico che sentiamo vibrare, saltare, muovere a contatto con emozioni forti, piacevoli o sgradevoli. Il dolore per l’ingiustizia e per la sofferenza di altri essere umani ci smuove le viscere, anche quando diventiamo insensibili. È nelle viscere che abita la misericordia, la compassione, l’empatia che proviamo davanti al dolore dell’altro e dell’altra. Quando le viscere non si smuovono più è perché “quando è troppo è troppo”: ci si può assuefare alle continue immagini di dolore che ci arrivano, in tempo reale, da un’informazione piena di dati e immagini che ci sovrastano.
“Esiste un’affinità tra ‘fare il male’ e ‘non opporsi al male’. Ciò che collega questi due aspetti, secondo il vocabolario di Stanley Cohen, è la loro disperata negazione della colpa. La negazione rende il perpetrare il male e l’astenersi dal reagire a esso psicologicamente e sociologicamente possibili. La negazione è, per entrambi, uno strumento fondamentale e una condizione indispensabile. La negazione è la risposta a interrogativi angoscianti ‘Cosa ne facciamo della nostra conoscenza del dolore degli altri e che cosa opera in noi questa conoscenza?’ (…) tutti gli argomenti rivelano l’uno o l’altro dei seguenti modelli: ‘non sapevo’ oppure ‘non ho potuto fare nulla’. (…) L’informazione sulle sofferenze degli altri, trasmesse in una forma vivida e facilmente leggibile, è disponibile all’istante quasi ovunque… questo ha due conseguenze che pongono dilemmi etici d’inaudita gravità. In primo luogo, essere spettatori non è più la condizione eccezionale di poche persone. Ora siamo tutti spettatori: testimoni dell’afflizione, del dolore e della sofferenza che ciò causa. In secondo luogo, abbiamo tutti bisogno di discolparci e di giustificarci.”[4]
Tutti sappiamo quante violazioni dei diritti umani ci sono nel mondo, ma questo, spesso, provoca in noi come una saturazione da informazione e ci anestetizziamo. Non sempre conoscere corrisponde ad agire contro le ingiustizie. Non possiamo cambiare il mondo da soli. È lo stesso Bauman ad affermarlo, autore del concetto di modernità liquida: la società liquida porta insita in sé anche la potenzialità di essere modificata; la liquidità non forgia una realtà immutabile, lo dice la parola stessa. Quindi è possibile agire perché la corrente fluisca in modo diverso.

Molti lavoriamo a favore dei diritti umani senza saperlo o sentendo chi lo fa in modo diverso dal mio, come nemico. Un esempio che ho ascoltato recentemente e che può essere paradigmatico: le suore ungheresi lottavano contro lo Stato comunista per poter semplicemente esistere; altre suore, nello stesso momento storico, lottavano in Sudafrica contro l’apartheid e venivano definite comuniste. A una lettura superficiale questi due gruppi di suore possono essere considerate su due barricate opposte. Ma siamo sicuri che la lettura sia corretta? O forse i due gruppi di suore stanno operando per la libertà, l’inclusione, l’educazione, la partecipazione solo in due contesti differenti?
Se parlare di Diritti umani può dividere, operare insieme per i Diritti umani può forse unire?

Se sogniamo un mondo in cui tutte e tutti possiamo godere dei Diritti umani è necessario contribuire a una narrazione, a un racconto del mondo diversa; a partire da una profonda spiritualità che nutra una visione olistica e interconnessa del mondo. Siamo tutti interconnessi e il benessere di uno può nascere solo a partire dal benessere di tutti e tutte. Nasciamo, esistiamo e agiamo solo in relazione.

Patrizia Morgante, membro della Commissione Giustizia Pace Creato della Famiglia Domenicana (www.giustiziaepace.org)




[1] Con compiti e procedure differenti: Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (Ginevra), Corte Europea dei Diritti Umani
[2] Questa espressione è mutuata (forse in modo un po’ creativo) dalla Psicologia della Gestalt, che postula che in una figura possono sussistere più forme allo stesso tempo, ma una prevale sull’altra, ed è quella che percepiamo come reale. Questa figura prevalente non è fissa, può cambiare nel tempo e tra le persone, e nel tempo anche per la stessa persona. Simbolicamente questo postulato si può adattare alla realtà attuale che viviamo: emerge la figura violenta, ma questo non vuole dire che non esistono fili di bellezza tessuti con pazienza da molti di noi.
[3] Emma Martínez Ocaña, “Te llevo en mis entrañas dibujada”, ed. Narcea, pag. 165
[4] Zygmunt Bauman, “Il secolo degli spettatori”, ed. EDB Lampi

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