Questa riflessione prende vita
qualche giorno dopo la morte dell’ex Presidente Azeglio Ciampi, e impiegare
come titolo di questo articolo una sua frase, mi sembra un segno di gratitudine
a un uomo che ha saputo camminare con autenticità in questa storia.
Per queste osservazioni che
seguono prendo spunto dalla mia partecipazione, in qualità di facilitatrice, al
Convegno internazionale sui Diritti Umani promosso dalla Famiglia Domenicana a
Salamanca (Spagna), a settembre del 2016. È stato un onore e un grande
apprendimento accompagnare nei quattro giorni dell’incontro i 200 partecipanti della
Famiglia di San Domenico (suore, frati, laici e laiche, giovani), provenienti
da 50 paesi diversi e con impegni molto differenti tra loro nella difesa e
nella promozione dei Diritti Umani nel mondo. Lo chiamano “Processo Salamanca” (in memoria dell’impegno di Francisco de
Vitoria e altri Domenicani come Montesinos e Las Casas) questo tentativo di far
incontrare e lavorare insieme la dimensione intellettuale e di ricerca sui
Diritti Umani e la dimensione più operativa, che mobilita risorse concretamente
contro le numerose violazioni dei diritti, nei diversi luoghi del mondo. L’Ordine
domenicano ha accettato la sfida di voler conciliare testa e mani, cielo e
terra, mente e cuore: non è tempo per le frammentazioni, è necessario lavorare
in networking per favorire un
cambiamento significativo nella società e per creare quell’auspicata trasformazione
verso un benessere sempre più inclusivo e allargato.
Chi parla più di Diritti umani
oggi? E se lo si fa, con quale linguaggio e che narrazione si diffonde? Chi
conosce le Istituzioni dove governi e società civile si incontrano per
estenuanti negoziazioni in difesa dei diritti umani?[1] Cosa
vogliamo dire con Diritti Umani?
Per rispondere in modo chiaro ma
non esaustivo a quest’ultima domanda, non possiamo non fare riferimento alla
Dichiarazione dei Diritti Umani approvata dalle Nazioni Unite nel 1948. Un tentativo
encomiabile di dare un nome ai diversi aspetti in cui la dignità umana, di cui
ogni essere umano è portatore per il solo fatto di esistere, può essere
declinata e vissuta, tenendo conto delle diversità culturali, storiche e
sociali di ogni realtà. La Dichiarazione del ’48 cerca di conciliare
universalità e eccezionalità, globalità e localismo, individualità e socialità.
Quel testo è un’opera d’arte non per la sua perfezione, ma perché ha saputo
tradurre in parole i desideri che abitavano nel cuore dei popoli dopo due
devastanti Guerre mondiali. È una lista di desideri e aspirazioni umane, come
se avessero risposto alla domanda “Cosa
sogniamo per il futuro del mondo? Cosa possiamo imparare dopo tanta violenza?”.
Parlare di Diritti Umani oggi
sembra usare una lingua antica o fuori moda. Sono altre le parole che abitano
la nostra società globale e, l’Italia e l’Europa, non fanno eccezione. Sembra
prevalere un linguaggio declinato a partire dalla violenza, dall’aggressione,
dalla divisione, dalla morte: sia nell’ambito di un’economia predatoria ed
escludente, sia nell’ambito socio-politico di relazioni tra comunità locali e tra
popoli.
Come ci poniamo noi,
sognatori e sognatrici di un mondo dove “giustizia e pace si baceranno”,
davanti a questa figura violenta che prevale nel mondo?[2] Siamo
in grado di cogliere i sussurri di un bene che continua ad abitare gli
interstizi della vita? O, pur inconsapevolmente, cadiamo in questo
chiacchiericcio rumoroso e deprimente, nichilistico, dove “tanto non serve a
nulla”, “niente mai cambierà”?
E’
necessario educarci affettivamente e spiritualmente a cogliere il bello che
cresce. Non basta apprendere nuovi comportamenti, abbiamo bisogno di costruire
spazi di senso, di nutrire la sacralità del quotidiano, di generare una
spiritualità olistica che sani le ferite e alimenti la riconciliazione, dentro
e fuori di noi. Per essere promotori e promotrici dei Diritti umana, non basta
una decisione razionale, è necessario lasciarci toccare nel profondo, nelle
nostre viscere.
“I Vangeli sono molto parchi nell’espressione delle emozioni di Gesù.
Per questo colpisce il fatto che nei sinottici gli assegnino per ben sette
volte l’espressione ‘commuovere le viscere di Gesù’. Questa espressione è
legata a situazioni nelle quali Egli interviene per curare, sanare, alleviare
il dolore. (…) Non è il frutto di una riflessione ma di un cuore
misericordioso.” [3]
Parliamo di viscere di misericordia. Donne e uomini siamo
dotati di un grembo simbolico che sentiamo vibrare, saltare, muovere a contatto
con emozioni forti, piacevoli o sgradevoli. Il dolore per l’ingiustizia e per la sofferenza di altri essere umani
ci smuove le viscere, anche quando diventiamo insensibili. È nelle viscere
che abita la misericordia, la compassione, l’empatia che proviamo davanti al
dolore dell’altro e dell’altra. Quando le viscere non si smuovono più è perché
“quando è troppo è troppo”: ci si può assuefare alle continue immagini di
dolore che ci arrivano, in tempo reale, da un’informazione piena di dati e
immagini che ci sovrastano.
“Esiste un’affinità
tra ‘fare il male’ e ‘non opporsi al male’. Ciò che collega questi due aspetti,
secondo il vocabolario di Stanley Cohen, è la loro disperata negazione della
colpa. La negazione rende il perpetrare il male e l’astenersi dal reagire a
esso psicologicamente e sociologicamente possibili. La negazione è, per
entrambi, uno strumento fondamentale e una condizione indispensabile. La
negazione è la risposta a interrogativi angoscianti ‘Cosa ne facciamo della
nostra conoscenza del dolore degli altri e che cosa opera in noi questa
conoscenza?’ (…) tutti gli argomenti rivelano l’uno o l’altro dei seguenti
modelli: ‘non sapevo’ oppure ‘non ho potuto fare nulla’. (…) L’informazione
sulle sofferenze degli altri, trasmesse in una forma vivida e facilmente
leggibile, è disponibile all’istante quasi ovunque… questo ha due conseguenze
che pongono dilemmi etici d’inaudita gravità. In primo luogo, essere spettatori
non è più la condizione eccezionale di poche persone. Ora siamo tutti
spettatori: testimoni dell’afflizione, del dolore e della sofferenza che ciò
causa. In secondo luogo, abbiamo tutti bisogno di discolparci e di
giustificarci.”[4]
Tutti sappiamo quante violazioni
dei diritti umani ci sono nel mondo, ma questo, spesso, provoca in noi come una
saturazione da informazione e ci anestetizziamo. Non sempre conoscere
corrisponde ad agire contro le ingiustizie. Non possiamo cambiare il mondo da
soli. È lo stesso Bauman ad affermarlo, autore del concetto di modernità
liquida: la società liquida porta insita in sé anche la potenzialità di essere
modificata; la liquidità non forgia una realtà immutabile, lo dice la parola
stessa. Quindi è possibile agire perché la corrente fluisca in modo diverso.
Molti lavoriamo a favore dei
diritti umani senza saperlo o sentendo chi lo fa in modo diverso dal mio, come
nemico. Un esempio che ho ascoltato recentemente e che può essere paradigmatico:
le suore ungheresi lottavano contro lo Stato comunista per poter semplicemente
esistere; altre suore, nello stesso momento storico, lottavano in Sudafrica
contro l’apartheid e venivano definite comuniste. A una lettura superficiale questi
due gruppi di suore possono essere considerate su due barricate opposte. Ma
siamo sicuri che la lettura sia corretta? O forse i due gruppi di suore stanno
operando per la libertà, l’inclusione, l’educazione, la partecipazione solo in
due contesti differenti?
Se parlare di Diritti umani può dividere, operare insieme
per i Diritti umani può forse unire?
Se sogniamo un mondo in cui tutte
e tutti possiamo godere dei Diritti umani è necessario contribuire a una
narrazione, a un racconto del mondo diversa; a partire da una profonda
spiritualità che nutra una visione olistica e interconnessa del mondo. Siamo
tutti interconnessi e il benessere di uno può nascere solo a partire dal
benessere di tutti e tutte. Nasciamo, esistiamo e agiamo solo in relazione.
Patrizia Morgante, membro della
Commissione Giustizia Pace Creato della Famiglia Domenicana (www.giustiziaepace.org)
[1] Con compiti e procedure
differenti: Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (Ginevra), Corte
Europea dei Diritti Umani
[2] Questa espressione è mutuata
(forse in modo un po’ creativo) dalla Psicologia della Gestalt, che postula che
in una figura possono sussistere più forme allo stesso tempo, ma una prevale
sull’altra, ed è quella che percepiamo come reale. Questa figura prevalente non
è fissa, può cambiare nel tempo e tra le persone, e nel tempo anche per la
stessa persona. Simbolicamente questo postulato si può adattare alla realtà
attuale che viviamo: emerge la figura violenta, ma questo non vuole dire che
non esistono fili di bellezza tessuti con pazienza da molti di noi.
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