Per chi come me si occupa di
comunicazione sociale, la realtà è un luogo privilegiato per prendere spunti e
idee creative per il proprio lavoro. È come un cantiere sempre attivo.
Qualche giorno fa ero seduta a un
tavolo di un ristorante con amici e ho sentito un bambino gridare e correre
verso i propri genitori con una mano stretta sulla fronte e un oggetto nell’altra
mano. Immediatamente ho dato per scontato che il bambino fosse caduto e si
fosse ferito, e che quella mano nascondesse del sangue. Al raggiungere la
mamma, il bambino, piangendo, grida “Mi
si è rotto il vetro del cellulare!”.
Posso immaginare il vostro volto aperto
a un sorriso che è un misto di ilarità e preoccupazione allo stesso tempo; è
quello che è accaduto a me e ai miei amici: siamo rimasti senza parole.
Ho iniziato con questo aneddoto per due
ragioni. La prima è che quando vogliamo comunicare qualcosa, il miglior
linguaggio è quello di raccontare una storia (#storytelling): aiuta chi legge a
immedesimarsi e risveglia, non solo la parte cognitiva, ma anche la parte
affettiva e corporea; la nostra persona reagisce nella sua interezza per
simpatia e/o empatia.
Chi meglio delle religiose ha tante
storie da narrare per dire come, oggi, un carisma si fa carne in un contesto?
La seconda ragione è per riflettere
insieme: noi adulti abbiamo usato le nostre categorie culturali e generazionali
per interpretare la scena che scorreva davanti ai nostri occhi (il bambino che
corre dai genitori..). La realtà ci ha stupiti, ci ha sorpresi impreparati a
comprendere. I giovani nascono e crescono in una cultura digitale e noi siamo
impreparati ad accogliere il loro modo di abitare il mondo, pertanto ci viene quasi
naturale giudicarlo, senza ricordarci che, quando eravamo adolescenti,
scatenavamo le stesse reazioni negli adulti. Il rischio in cui cadiamo è quello
tipico della ‘società liquida’: “… non si
tratta dello scontro fra due visioni della vita diverse, bensì di due visioni
diverse che convivono fianco a fianco senza incontrarsi”[1]
Siamo pollicini o indicini?
Quando digitiamo sulla tastiera del
nostro smartphone usiamo i pollici o l’indice? La risposta a questa semplice
domanda rappresenta lo scarto generazionale tra chi percepisce la tastiera come
prolungamento delle mani e chi, come gli adulti, come un oggetto che richiede
uno sforzo per usarlo.
La relazione tra il mondo giovanile e i
media digitali è una riflessione che nasce proprio dal cammino verso il Sinodo
dei Vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale” (#Synod2018[2])
e che ci sfida in prima persona come vita religiosa femminile. I giovani (15-29
anni) abitano il mondo digitale come una protesi del proprio corpo e mente,
senza viverla come una parte estranea: per noi adulti è difficile provare lo
stesso ma è necessario entrare in ascolto e in dialogo su ciò che questo
implica: in che modo la persona matura nel mondo digitale? Quali valori la
nutrono? Come essere in missione nel mondo digitale come religiose?
La differenza generazionale nell’uso
dei media la viviamo anche nelle comunità religiose. La formatrice spesso si
trova impreparata ad abitare con sapienza questo nuovo mondo e a farlo
diventare parte del processo formativo. La sfida è formare ai media e formare
attraverso i media digitali.
È giusto lasciare che le formande usino
cellulari e tablet personali? Non esiste una risposta valida per tutte le
situazioni. Ciò che è importante è avviare un dialogo e un discernimento
condiviso per comprendere le diverse posizioni e, soprattutto, i diversi mondi
interpretativi. Noi, non più giovani, abbiamo appreso ad abitare il digitale
dopo anni di mondo analogico (lineare) e quindi è facile percepire una
separazione tra offline e online; anche se questa frattura si sta attenuando
sempre più.
A mio modesto parere ‘vietare’ non è un
atteggiamento fruttuoso e che porta a una maturazione delle capacità di
discernimento e decisione della persona. Questo vale anche per le nuove
generazioni. Dobbiamo stimolare un senso di responsabilità nell’abitare il
digitale, e formare cittadine e cittadini digitali consapevoli.
Quando ci riferiamo alle formande, è
probabile che parliamo di persone maturate dentro il digitale, dove non esiste
separazione ma è tutto un fluido meccansimo onlife
(vita online).
Il mondo digitale giovanile è sì
orientato a creare e nutrire relazioni sociali, ma è abitato anche per vivere
la quotidianità fatta di apps,
biglietti di viaggio elettronici, forum tematici, acquisti online, prenotazione
di visite mediche, previsioni del tempo, e-book, musica, film, tv on demand,
film.
Le donne che chiedono di entrare nelle
congregazioni sono donne inserite in questo secolo con esigenze e sogni tipici
di questa storia. Queste stesse donne cercano la congregazione su google
inserendo parole chiave. È più raro che entrino perché hanno frequentato le
nostre scuole o per la nostra testimonianza di fede nella quotidianità della
parrocchia o del territorio.
Una vita religiosa sempre più digitale
Anche se non siamo ‘native digitali’, è
possibile oggi vivere fuori dal mondo digitale? E se non è possibile farlo,
come abitiamo questo mondo come Religiose? Cosa, il digitale, ci chiede di
imparare come Leaders di un Istituto che è inserito nel XXI secolo?
Oggi esiste un grande spazio ecclesiale
che è il mondo digitale: come siamo presenti come congregazione? Abbiamo
un’identità digitale chiara? Cosa dice di noi il nostro sito? Cosa ‘postiamo’
sui social media per dire agli abitanti del digitale la bellezza che ancora può
sgorgare dal nostro carisma? Siamo presenti con consapevolezza nel web 2.0?
C’è una sete di bellezza e di verità
nel mondo digitale: chi meglio di una religiosa può incontrare questa sete e
lasciarsi toccare e rispondere. Forse dobbiamo solo imparare a farlo in modo
diverso. La rete non risponde alla logica verticistica e gerarchica tipica del
mondo religioso. Dobbiamo imparare a essere uno tra tanti, ma senza rinunciare
mai alla nostra parola evangelica; non essere invadenti, moralistici,
giudicanti. La rete ci taglia fuori se vogliamo imporre; semplicemente non ci
segue. La credibilità non è scontata, ce la dobbiamo guadagnare. Se vogliamo
stare dentro dobbiamo accettare e stimolare il confronto autentico.
Se le nostre risposte non ci
soddisfano, vuol dire che siamo invitate come leaders e come religiose, a
maturare una ‘cultura della comunicazione’: dentro di noi, nella nostra
congregazione, nel mondo ecclesiale e in quello secolare.
Cosa vuol dire maturare una ‘cultura
della comunicazione’ per una congregazione? Provo a dire qualcosa senza la
pretesa di completare il tema che è una sfida complessa, ma che non possiamo
non cogliere.
La comunicazione oggi è una missione in
sé ed è, allo stesso tempo, un impegno trasversale della missione della
Congregazione. Sarebbe bene che ogni istituto avesse una suora (o laica o
laico) che si occupi di comunicazione (ad intra e ad extra), anche se, questo,
non si dovrebbe tradurre in una delega in bianco alla comunicatrice. Chi
comunica è la congregazione tutta; il Governo generale è responsabile
dell’identità istituzionale di una Congregazione e deve lavorare con la
responsabile della comunicazione per i contenuti e lo stile comunicativo.
Spesso sento definire il web 2.0[3]
come una serie di strumenti per comunicare: ma in realtà sono veri e proprio
spazi antropologici dove la vita scorre, con le sue regole e i suoi linguaggi.
Per far capire questo concetto fondamentale, uso sempre un esempio: andreste ad
una festa presso un ambasciata con un costume da bagno? Ogni luogo ha le sue
regole sociali e crea linguaggi e dinamiche sue proprie. Tutto questo vale
anche per gli spazi digitali.
Mi sembra di cogliere una certa paura
tra le Superiore verso i nuovi media; una sfiducia verso la stampa, anche
quella cattolica; un disinteresse che, purtroppo, si trasforma in
un’invisibilità pastorale. Ognuno ha diritto alle proprie opinioni personali,
ma quando abbiamo un ruolo come leaders o formatrici, abbiamo il dovere di
conoscere e comprendere il mondo digitale, di essere consapevoli delle sue
virtù e dei suoi lati oscuri. La rete deve essere uno spazio di responsabilità
e di educazione.
Tornando alla stampa. Se non costruiamo
una buona relazione con la stampa, sia cattolica che secolare, non cambieremo
mai l’immagine che essa ha delle Religiose: se non siamo noi a raccontare chi
siamo, lo faranno loro senza conoscerci. Se lasciamo spazi bianchi, la stampa
li occuperà contribuendo a quel flusso pericoloso di notizie false (fake news),
verso le quali Papa Francesco ci mette in guardia.[4]
Quello che prima facevamo solo in parrocchia e nella piazza, oggi dobbiamo
viverlo anche nel mondo digitale.
Come ci sentiamo, cosa proviamo quando
viviamo una bella esperienza? Cosa facciamo quando il cuore ci scoppia di
gioia? Io, in genere, lo condivido con qualcuno; sento il bisogno viscerale di
raccontarlo. Questa è comunicazione! È questa passione che sentiamo premere
dentro e che ci spinge a voler raccontare il bello; anche quando il bello
proviene dalle ceneri del dolore.
E se esiste uno specifico delle
religiose nel digitale è proprio questo: farsi voce, immagine, suono, volto di
quella bellezza che nasce con discrezione in quei luoghi dove tutti vedono solo
sofferenza e violenza; farsi sguardo digitale che racconta la buona notizia;
farsi spazio di ascolto in rete perché altri condividano. Se noi donne ci
prendiamo cura della vita, ci risulterà spontaneo prenderci cura di quella che
scorre in rete; non è meno vera, è solo vissuta in un altro ambiente.
L’Ufficio Comunicazione della Congregazione
Un’obiezione che mi pongono spesso è:
ci vorrebbero delle persone preparate professionalmente per fare tutto questo!
Noi siamo poche e non abbiamo risorse! Capisco queste perplessità e le
condivido. È vero, nella comunicazione oggi è necessario investire se vogliamo
fare una comunicazione di qualità; ma non sono convinta che l’ostacolo siano
solo le risorse economiche. È necessario prima renderci conto che ‘comunicare
bene la missione’ è una priorità e poi le strade si trovano. Non è necessario
fare tante cose, è meglio poche cose ma fatte bene; bilanciando strumenti e
spazi per la comunicazione ad intra della Congregazione con quelli per la
Comunicazione esterna. Ci possiamo avvalere di professionisti esterni o formare
delle suore perché si prendano cura, come missione, dell’identità comunicativa
e digitale dell’Istituto.
Abbiamo chiesto ad alcune comunicatrici
che lavorano per la vita religiosa: quali
difficoltà incontri nel tuo lavoro? Cosa chiederesti al Governo generale per
facilitare il tuo compito?
Ecco alcune risposte che possono
aiutarci a comprendere meglio la loro prospettiva:
- Si pensa che comunicare bene sia solo avere un sito web (ma
poi non si aggiorna)
-
Si dedica poco tempo a condividere i
contenuti
-
Il Governo generale non delega la
comunicazione alla responsabile, prevale il controllo e la sfiducia
-
Scarsa considerazione verso la
comunicazione: non si conosce e si sottovaluta
-
Poche risorse investite
-
Una chiara divisione dei compiti tra il
Governo generale e l’Ufficio comunicazione
-
Imparare a condividere le informazioni
- Accettare che essere visibili non è mancanza di umiltà
#FormationOnline #Formation
Nel Piano Strategico 2016-2020 redatto
dalla UISG, la comunicazione ha un ruolo essenziale. In questi quasi tre anni
di vita dell’Ufficio Comunicazione si è cercato di migliorare la comunicazione
con i membri, e dei membri tra loro; consapevoli che migliorare l’accesso delle
Superiore alle informazioni facilita la loro missione di governo e le fa
sentire più sostenute e accompagnate. Molto resta da fare, ma abbiamo nuove
idee pensando anche alla prossima Plenaria della UISG del 6-10 maggio 2019.
L’aspetto che mi sembra importante
sottolineare qui è la priorità assegnata, a partire dalla fine del 2016, alla
formazione delle comunicatrici e alla sensibilizzazione dei Governi generali
sul tema ‘Comunicare la missione’. Lo abbiamo fatto e lo stiamo facendo
attraverso corsi, seminari, webinar. Uno strumento che uscirà proprio in questi
giorni è un manuale di comunicazione per la vita religiosa femminile: uno
strumento agile e di uso immediato per chi svolge questa delicata e
appassionante missione nelle Congregazioni.
Alla fine del Corso ‘Comunicare la
Missione’[5]
svoltosi nell’ottobre 2017, abbiamo chiesto alle partecipanti di condividere
una cosa che portavano con loro e una cosa di cui desideravano liberarsi, dopo
ciò che avevano imparato.
Suor Giovanna, una Superiora generale,
scrive: “Vorrei portarmi via solo la
consapevolezza dell’importanza della comunicazione, consapevolezza che suscita
entusiasmo, voglia di fare, urgenza di farlo, condivisione… Ma vorrei lasciare
qui in questa stanza il pessimismo, lo scoraggiamento, la delusione e la piccolezza.
Insomma anche se piccole si può iniziare e fare qualcosa!!”
È lo stesso augurio che faccio a me e a
ciascuna di voi. Coraggio!
« La verità vi farà liberi (Gv 8,32).
Fake news e giornalismo di pace»
Fake news e giornalismo di pace»
Signore, fa’ di noi strumenti della tua pace.
Facci riconoscere il male che si insinua in una comunicazione che non crea comunione.
Rendici capaci di togliere il veleno dai nostri giudizi.
Aiutaci a parlare degli altri come di fratelli e sorelle.
Tu sei fedele e degno di fiducia; fa’ che le nostre parole siano semi di bene per il mondo:
dove c’è rumore, fa’ che pratichiamo l’ascolto;
dove c’è confusione, fa’ che ispiriamo armonia;
dove c’è ambiguità, fa’ che portiamo chiarezza;
dove c’è esclusione, fa’ che portiamo condivisione;
dove c’è sensazionalismo, fa’ che usiamo sobrietà;
dove c’è superficialità, fa’ che poniamo interrogativi veri;
dove c’è pregiudizio, fa’ che suscitiamo fiducia;
dove c’è aggressività, fa’ che portiamo rispetto;
dove c’è falsità, fa’ che portiamo verità.
Amen.
Facci riconoscere il male che si insinua in una comunicazione che non crea comunione.
Rendici capaci di togliere il veleno dai nostri giudizi.
Aiutaci a parlare degli altri come di fratelli e sorelle.
Tu sei fedele e degno di fiducia; fa’ che le nostre parole siano semi di bene per il mondo:
dove c’è rumore, fa’ che pratichiamo l’ascolto;
dove c’è confusione, fa’ che ispiriamo armonia;
dove c’è ambiguità, fa’ che portiamo chiarezza;
dove c’è esclusione, fa’ che portiamo condivisione;
dove c’è sensazionalismo, fa’ che usiamo sobrietà;
dove c’è superficialità, fa’ che poniamo interrogativi veri;
dove c’è pregiudizio, fa’ che suscitiamo fiducia;
dove c’è aggressività, fa’ che portiamo rispetto;
dove c’è falsità, fa’ che portiamo verità.
Amen.
Francesco
[1] Cyberbullismo, Federico Tonini, Mondadori, pag. 50
[2] www.synod2018.va
[3] Quando parliamo di web 2.0 ci riferiamo al mondo dei social
media, cioè di uno spazio digitale dove prevale la dimensione social,
relazionale, interattiva. Il web 1.0 era considerato il web vetrina,
rappresentato bene da un sito web che parlava della propria organizzazione
senza un dialogo effettivo con il proprio pubblico. Il web 2.0 non può
prescindere dall’ascolto di chi ci legge e dall’interazione con loro. Il web
2.0 è reciproco, tipico di una rete fatta di nodi non gerarchici. Ci stiamo
muovendo, ormai, verso web 3.0 e 4.0 o Internet of Things (Internet delle
cose): dove a dialogare non saranno solo le persone ma gli oggetti.
[4] Papa Francesco ha scelto “Notizie false e giornalismo di
pace” come tema per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni sociali del 2018.
Il messaggio del Santo Padre uscirà il 24 gennaio, San Francesco di Sales,
patrono dei giornalisti.
[5] ‘Comunicare la Missione’ è il Corso base di Comunicazione
per la Vita religiosa che la UISG, in partenariato con altre organizzazioni
(Unione Superiore Maggiori d’Italia-USMI; Multimedia International), promuove
da un paio d’anni. Siamo arrivati alla quarta edizione e abbiamo formato più di
150 suore e laiche che si occupano di comunicazione per la vita religiosa.
Info: https://communicatingmission.wordpress.com
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