E se anche la Chiesa diventasse una grande performance?
E' indubbio che viviamo in una società della performance, dove da consumatori siamo diventati performer: individui sempre più preoccupati di dare prova dei nostri talenti.
Anche il linguaggio è andato cambiando: siamo diventati progetti, più che persone fragili e belle. Riempiamo di tecnicismi il nostro parlare aziendale e privato (d'altronde il sottile confine tra privato, pubblico e politico si sta deteriorando sempre di più!).
Parliamo di gestione di risorse, di raggiungere obiettivi e risultati misurabili, di dati da interpretare.
Non voglio negare che un cambiamento e adattamento sia necessario. Ma mi domando se il costo di questo appiattimento freddo all'ideologia funzionale ed efficientistica non sia troppo alto? E se ci faccia perdere di vista parole che non possiamo misurare: sogno, desideri, anima, profezia, vocazione, fioritura?
Non possiamo dimenticare di essere persone trascendenti, che non ci rende felici solo l'orizzontalità, ma sentiamo una sete profonda di tendere alla verticalità (dalle radici al cielo, dalla terra alla spirito e viceversa).
Non ci basta raggiungere risultati, ci nutriamo di percorsi accidentati. Non ci alimenta solo fare la lista dei nostri talenti, dobbiamo toccare la nostra vocazione che dice il nostro senso di abitare questa storia.
Credo che oggi la Chiesa debba proprio ricordarci questa nostra nostalgia della verticalità, della trascendenza per essere credibile e rispondere veramente ai desideri profondi di una società in ricerca di senso.
Si di accordo. Aggiungo amore x la vita e senso del buono e sano umorismo
RispondiEliminaHai ragione! L'umorismo può aiutare molto; anche a non prendersi troppo sul serio.
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