“Oso pensare che Dio sorrida per gli incredibili, per i
figli (e figlie) che fanno voto di vastità.” Don Angelo Casati, Il sorriso di
Dio, ilSaggiatore
Riflettere sul tema per scrivere questo contributo, mi ha
portato a fare sintesi di qualcosa che mi abita dentro da sempre: la
similitudine tra vita laicale e Vita consacrata (VC), o meglio le assonanze che
si possono individuare soprattutto parlando dei consigli evangelici. Questa
riflessione non può essere separata dalla mia storia di vita, professionale e
personale: sin da bambina sono stata impegnata in parrocchia e nei movimenti
ecclesiali, come educatrice e come animatrice; questo seme è maturato nel tempo
verso una fede sempre più adulta e profonda, fino a scegliere questo ambito
anche professionalmente. Oggi sono una donna laica che lavora in una
Congregazione religiosa internazionale: questo dato informa tutto il mio essere
e, quindi, anche la lettura che, dei voti, faccio a partire da questa speciale
visione e prospettiva.
Laici e consacrati, siamo un dono reciproco da vivere nello spirito dell’ecclesiologia di comunione. I laici e le laiche impegnate, a vario titolo, nelle diverse famiglia religiose respirano e assorbono lo stile della Vita consacrata; non si può considerare un impiego come un altro, si sente (o meglio, si dovrebbe sentire) di essere parte di un tutto più grande del nostro piccolo lavoro. Si è parte di una missione più ampia.
Ho sempre sentito echi in me di ciò che vedevo incarnato
nella Vita consacrata: so che non è la mia vocazione, ma, allo stesso tempo, ho
lasciato che alcune intuizioni mi contagiassero, mi trafiggessero al punto da
farne punti fermi della mia quotidianità. L'espressione “vita regolare” ha
sempre attirato la mia attenzione: ho sempre pensato che noi laiche e laici,
spesso, viviamo una vita frenetica e poco ordinata, e questo incide anche sulla
nostra fede e ricerca spirituale. Così ho imparato a fare mie, delle intuizioni
dalla “vita regolare”: avere dei momenti di silenzio e pregheria quotidiani,
letture che nutrono l'anima, attenzione alla qualità della quotidianità e uno
sguardo attento alla realtà e al prossimo, essere fermento di bello.
Laici e consacrati, siamo un dono reciproco da vivere nello spirito dell’ecclesiologia di comunione. I laici e le laiche impegnate, a vario titolo, nelle diverse famiglia religiose respirano e assorbono lo stile della Vita consacrata; non si può considerare un impiego come un altro, si sente (o meglio, si dovrebbe sentire) di essere parte di un tutto più grande del nostro piccolo lavoro. Si è parte di una missione più ampia.
Ho
sempre sentito che i voti avessero a che fare con l’umanità, con quegli aspetti
fondanti della persona umana. Alla luce di questo, mi ha spesso accompagnata
una domanda: cosa possiamo imparare dai consigli evangelici? I consigli
evangelici possono dirci qualcosa per la nostra vita? La risposta è sempre
stata si.
L'origine della scelta della vita consacrata è una scelta
laica, di donne e uomini che si allontano verso il deserto, per rispondere a
una forte intuizione interiore di uno stile di vita diverso, più attento,
consapevole, discreto, leggero, autentico. Uno stile di vita che prendesse le
distanze non tanto dalle persone, ma da una mentalità. Distanziarsi per vedere
e ascoltare meglio.
Questo desiderio è un comune denominatore
per la persona umana, a mio avviso; la differenza sta nel modo in cui diamo
forma a questo grido profondo e umano: alcuni scelgono la consacrazione, altri
una vita secolare ma orientata a rispondere alla stessa intuizione. Pertanto,
oggi, quando si parla di stile di vita alternativo, economia solidale, banca
etica, ritorno alla campagna, credo si recuperi qualcosa di molto antico e
classico (che vale per sempre), e che richiama la scelta inedita di quelle
prime donne e uomini.
Attraverso i voti, parliamo di uno stile controcorrente,
ricordiamo e facciamo memoria che il Regno di Dio è un seme che può dare frutto
solo grazie all'adesione di ognuno e ognuna di noi al suo invito, secondo la
propria vocazione. I voti sono un modo per dare una forma e una struttura alla
scelta; una forma visibile in alcuni casi, anonima in altri. È il modo di dirmi
e dire all'esterno come vivo la mia chiamata. È la parte istituzionale del
carisma.
I voti, vissuti dal laicato e dai consacrati, parlano della
Bellezza, che è il tocco di Dio dentro di noi.
Laicamente il voto di povertà si è aggiustato perfettamente
con quell’anelito che ha caratterizzato
il progetto della società civile sul consumo critico, l'economia solidale e
alternativa alle grandi multinazionali, il risparmio etico. È l'invito a una
vita sobria, leggera, che non possiede tanto per non dedicare troppo tempo alla
cura degli oggetti. Può aiutarci a creare un distacco sano (un digiuno secondo
la dicitura di Antonio Gentile sul suo libro), per scongiurare pericolose
dipendenze, tra l’essere e il possedere.
Provocatoriamente, affermo che chi, oggi, fa il voto di
povertà non scelto è la gente che deve arrivare alla fine del mese con il
proprio stipendio. Nella Vita consacrata, alcune volte, è più una scelta
teorica che concreta: quando una religioso si ammala, l'istituto non gli farà
mancare ciò di cui ha bisogno. Una persona nel mondo, può curarsi solamente se
ha le possibilità per farlo. Questo senso di insicurezza e fragilità economica,
cambia molto la prospettiva del mondo.
Scegliere uno stile sobrio è un'esperienza liberante e
liberata: verso di noi, verso gli altri essere umani e verso il cosmo. Per
mantenere un livello di vita oltre le nostre possibilità sottoponiamo il cosmo
e altre persone a una pressione insostenibile.
È un voto complesso perché non ha a che vedere solo con i
beni, è molto ampio: a mio avviso, ha a che vedere con l'idea di potere e possesso
che abbiamo, con la capacità di aprirsi, con la gestione del tempo e degli
spazi. Quando parliamo di povertà non ci riferiamo solo a beni materiali:
quanto siamo disposte a condividere i beni spiritualiti, le informazioni, i
nostri talenti?
Essere
poveri ci chiede di dare importanza ai pochi oggetti che possediamo, perché
veramente ci servono, cioè servono la nostra vita perché sia migliore. Ma un
bene richiede attenzione, cura, tempo. Avere poco ci spinge a curare i dettagli
perché si veda meno la nostra povertà. Come si fa con la liturgia in alcuni
luoghi dove non c'è molto per abbellire la mensa, allora interviene la
creatività nutrita dall'amore. Nella povertà scelta non può esistere lo spreco,
lo scarto. In alcune culture danno un nome a ciò che si possiede: è farli
personali, fare amici gli oggetti, per averne cura.
Poveri
perché non vogliamo occupare il posto degli altri in questo mondo, non vogliamo
essere voce di altri, ma facciamo in modo che possano parlare tutte e tutti;
poveri perché silenziosi, di un silenzio abitato che è discrezione, non
indifferenza o passività; poveri perché non vogliamo controllare o sapere
tutto.
Il
consiglio evangelico dell'obbedienza credo sia uno di quelli trattati peggio.
Si è decodificato come annientamento del proprio io o appiattimento mortifero a
decisioni prese da altri o altre, senza farci partecipi, mortificando la nostra
capacità di discernimento e partecipazione. Psicologicamente parlando, privare
una persona della sua capacità di ascoltarsi e discernere la volontà di Dio
nella sua vita, è disumano e pericoloso. Educhiamo persone prive di personalità
e incapaci, spesso, di essere agenti di cambiamento nella missione. Persone che
rischiano di rimanere bambine e dipendenti per tutta la vita, e non diventare
persone adulte nella vita come nella fede.
Noi
donne, nel consiglio dell'obbedienza, siamo quelle che, nella vita religiosa e
sociale, abbiamo subito di più: le sovrastrutture sacre, familiari e politiche
alle quali era richiamato l'invito ad “abbassare la testa”, erano così numerose
e intersecate bene tra loro, da creare una forza occulta e invisibile che ha
oppresso tante donne. Oggi, nonostante il femminismo e il Concilio Vaticano II,
facciamo ancora fatica a liberarcene, vivendo una vita parziale e, sovente,
poco felice.
Obbedire
è ascoltare la voce di Dio dentro di noi, facendoci aiutare da fratelli e
sorelle, senza dubbio, ma mai delegare ad altri questo impegno, questa
responsabilità che ci fa persone.
Il
consiglio della castità lo lego alla scelta coraggiosa e profetica fatta da
tante donne nel primo millennio cristiano (e anche dopo) di entrare in convento
per non sposarsi, e accettare la dominazione mentale e corporea di un uomo,
senza nessun rispetto delle istanze interne di ciascuna donna.
Questo
voto dice di come vivo la mia affettività, la mia relazionalità, la mia
corporeità, la mia sessualità e genitalità. La castità si vive anche per chi
non fa un scelta di consacrazione. È un atteggiamento verso la vita e l'altro,
l'altra: è un avvicinarmi discreto verso di me e la persona che mi sta di
fronte come entrassi in un luogo sacro. Non possedere e ingurgitare l'altro,
goderne senza farlo oggetto del mio desiderio (sia sessuale, sia affettivo ed
emotivo). È farsi grembo verso l'inedito; è fare spazio al bisogno e all'idea
dell'altro; è aprirci, ricevere, donare per essere fertili, fecondi,
generativi, creativi. Essere grembo è un invito per uomini e donne.
Anche
questo consiglio ci invita alla cura dei dettagli, a dare un nome a ciò che
sento per poterlo anche esprimere e condividere, a conoscere le mie trappole
emotive.
Casti
per contemplare la bellezza e non volerla necessariamente possedere; casti per
non rimanere chiusi nella mia sicurezza e nella mia certezza.
Patrizia Morgante
(questo testo è una selezione di una tesina scritta per il Corso STUDIUM)
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